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Giornale Critico di Storia delle Idee

Sito della rivista: www.giornalecritico.it

Il Giornale Critico di Storia delle Idee fa suo un nome e un programma che suonano, per lo meno, ambiziosi ed antichi. Il programma è quello della critica, il nome, evocato dal termine idea, sembra alludere ad una dimensione astratta, se non desueta e inattuale, nella definizione del pensiero, ovvero di qualsiasi attività intellettuale e simbolica. Infine, v'è la menzione della storia, che indica, prima di ogni altra cosa, un modo di vedere che si situa e situa ciò che dice nella dimensione del tempo, della relazione e della durata, diffidando degli apriorismi e delle pretese incondizionate di quei discorsi che descrivono il proprio punto di partenza come uno sguardo da nessun luogo, magari fondato sulla presunta validità inerziale dei "fatti". La fede più pericolosa, perché meno avvertita come tale, della nostra epoca, è l'accettazione, altrettanto superstiziosa delle credenze religiose del passato, dell'indiscussa superiorità dei "fatti" sulle idee. La capacità dell'uomo di pensarsi diversamente, di ideare e di progettare se stesso assieme alle forme della propria esistenza collettiva, viene ridotta a pura letteratura, a fantasticheria ludica, a mera illusione che va dissipata in nome di un'esperienza dei fatti che, in realtà, aggirando frettolosamente la questione dell'interpretazione, ovvero dei presupposti e, dunque, degli interessi concreti e delle idee per cui quei fatti sono "fatti", nasconde appena il grande intento disciplinare che la muove.

Anche per questo la critica, oggi, al di là dei più usurati luoghi comuni dell'epoca, non gode affatto di buona salute. Benché i programmi educativi delle nostre scuole e delle università, i loro stessi statuti, dichiarino spesso la loro vocazione formativa al senso critico, questa appare ormai in esplicita contraddizione con la rifunzionalizzazione dell'educazione e della cultura contemporanee nella pura prospettiva della produzione e della prestazione economica. Là dove educare e fare cultura si esauriscono nell'addestramento al lavoro e nella predisposizione di prodotti culturali da consumare, l'attitudine alla critica diventa, se non un ostacolo, certamente un costoso dispendio. I saperi e i poteri, oggi, - e il plurale qui esprime più la varietà superficiale della loro apparenza che l'esistenza reale di differenze e diversità concrete - condividono il criterio universale della massimizzazione degli utili e della minimizzazione dei costi e questa comune convergenza consegna la critica, assieme a tutte quelle esperienze e a tutti quei saperi che non vi si sottomettono, alla non contemporaneità. Se Marx, alla metà dell'Ottocento, poteva sostenere che i filosofi, fino ad allora, si erano limitati a comprendere il mondo, sì che all'ordine del giorno del suo secolo appariva il compito urgente di trasformarlo, adesso si tratta, piuttosto, di trasformarlo sempre più rapidamente e compulsivamente. Anzi, così rapidamente e compulsivamente da non poterlo fare che automaticamente, ossia ciecamente, affinché, insomma, non vi sia neppure il tempo e, quindi, il rischio di comprenderlo. Affinché, infine, si possa persino dimenticarlo.

Allora, l'accelerazione e la sua retorica, le macchine della tecnoscienza che battono il ritmo e la frequenza coatta a cui deve uniformarsi il tempo del mondo della vita, irridono la pazienza della critica, che si attarda a interrogare e a scrutare questo mondo fantasmagorico della grande trasformazione, che alla lentezza del suo sguardo appare, non diversamente, forse, che agli occhi dell'angelus novus di Benjamin, come una sola catastrofe, che accumula, senza fine, rovine su rovine. La pazienza della critica non è tuttavia rassegnazione. Il suo sguardo eloquente insiste sul mondo, lo incalza e lo interroga. Ne interroga il pensiero, ben sapendo che il mondo, comunque, non può non pensarsi, non può non avere idee. Le idee sono infatti modi di concepire, pensare e progettare il mondo (che lo si accetti o lo si rifiuti). Sono il mondo, non meno del mondo che concepiscono, pensano e progettano. Sono dei concetti che tutti pensano e tutti utilizzano… Ma che pensano e utilizzano, per lo più, senza pensarci, nella completa immediatezza. È in questo utilizzo immediato, irriflesso, che le idee si presentano come sempre identiche, come un dato naturale, un fatto.

Di contro, la filosofia isola quelle idee, come un chimico isola una sostanza o un elemento. Le isola e vi si sofferma. Le scompone e ricompone. Le pensa, insomma, pensandoci. Nel far questo, tuttavia, le traspone talvolta in una dimensione di verità e identità. E le ha trasposte in tale dimensione, a suo tempo, sia quando le ha proiettate in un mondo di verità assolute, di essenze, di forme stabili ed eterne, sia quando le ha ricondotte al loro presunto alveo naturale di verità fattuale empirica. Ha sottratto le idee al mondo (o piuttosto: si è illusa di farlo). Oppure le ha sottomesse al mondo, privandosi della possibilità di comprenderle e soprattutto di comprendere il mondo.

Ma può esservi, esiste ed è esistita un'altra filosofia. Una filosofia che non si limita a contrastare l'immaginaria immediatezza dei concetti che tutti dicono e, forse, solo nel dire pensano. Questa filosofia, soprattutto, non sottrae le idee al mondo che le genera, non le astrae dalla dimensione materiale di cui fanno parte. Smaschera il mondo che si pretende senza idee scovando nelle pieghe del linguaggio quotidiano, tra le righe dei messaggi che sembrano solo comunicare dei fatti, nella presunta innocenza dei discorsi, o in una certa filosofia che rinuncia alla distanza dal mondo, quelle idee che immaginano il mondo senza idee - questo mondo che velocemente si riproduce sempre uguale - come l'unico mondo possibile. Del resto, non si può non concordare con Michel Foucault: l'autentico inizio della storia delle idee si ha quando si ha il coraggio e la forza di storicizzare la stessa idea filosofica di verità. La verità è che la verità cambia. A partire dalla grande concezione nietzscheana la storia, l'esercito mobile di metafore di ciò che è stato detto e di ciò che è stato fatto come vero, si trasforma nel laboratorio permanente di una critica trascendentale che riduce le pretese del sapere, che dice il vero sulle verità, smascherandone le genealogie, i programmi istitutivi e le costruzioni disciplinari.

È questa la storia delle idee, almeno per come noi l'intendiamo. È quella storia che riconduce il mondo e le idee del mondo al loro farsi e disfarsi, al loro esser soltanto divenute ciò che sono. Le pone nella differenza e pone in esse la differenza. Intravvede infatti, innanzitutto, all'interno dell'idea, la differenza tra la parola, il suo significato e la cosa che il significato stesso significa (ben consapevole che il significato e la parola sono una "cosa" non meno della cosa che essi significano). Si tratta di linee dinamiche estremamente instabili tra le quali regna una forte tensione: l'una insegue l'altra: la parola la cosa, la cosa la parola, mentre il significato, quando non è a sua volta inseguito, corre dietro all'una o all'altra. La cosa si trasforma non meno dell'idea che la recita e la parola che la rappresenta. È sulla base di questa differenza che può essere poi intravista un'altra differenza: quella che attraversa l'idea, la sua parola e il suo significato nelle diverse epoche storiche, in una stessa epoca, in una stessa corrente di pensiero, in una stessa opera…

In tal modo la storia delle idee guarda il presente delle idee da una certa distanza. È la distanza dell'inattualità che restituisce alle realtà in cui viviamo la forza della differenza. Perché la questione non riguarda né il passato né il futuro - ad esso forse, come l'angelus novus di Benjamin, diamo sempre le spalle. L'inattualità non ci racconta certo l'avvenire, ma, autentica profezia lucida del presente pronunciata contro il presunto assolutismo delle sue forze immanenti, ci fa per lo meno capire che quanto accade, quanto è accaduto, non è iscritto nella necessità delle cose.